Annotazione alla Deliberazione della Corte dei conti  - Sezione Centrale di controllo di legittimità n. 4 del 2006 ( in corso di pubblicazione sul n.1/2006 della Rivista della Corte dei Conti ).

di Michele Umberto Francese

Presidente di Sezione della Corte dei conti

      Appare non convincente la deliberazione della Sezione Centrale di controllo di legittimità n. 4 del 2006 con la quale essa, nell’esaminare un decreto di pensione di un proprio magistrato collocato a riposo in costanza di servizio Se.C.I.T., ha deliberato, in contrasto con la precedente  giurisprudenza, che la “speciale indennità” che remunera le funzioni Se.C.I.T. vada collocata in quota B di pensione e non in quota A. Va qui specificato che detta indennità costituisce, in via di massima, l’unico emolumento che l’Esperto di provenienza magistratuale o dirigenziale riceve come remunerazione delle funzioni Se.C.I.T.

La “indennità medesima, ” istituita e disciplinata da legislazione speciale e come tale non riconducibile concettualmente alle comuni indennità accessorie o aggiuntive al trattamento economico fondamentale, si configura come “unica nell’ordinamento”, per caratteristiche che ne conclamano una peculiare sostanzialità stipendiale come a) la tredicesima mensilità ; b) gli aumenti biennali RIA (Retribuzione individuale di anzianità) ; c) le ritenute fiscali previdenziali . Trattasi quindi, al di là del nomen iuris  di un vero incremento stipendiale corrisposto, come lo stipendio, per tredici mensilità. [1]

      Ciò specificato, vale osservare che a supporto del diniego della quota A di pensione sono stati addotti in delibera  i due seguenti motivi :  1°) carenza di una norma che in tal senso disponga ;  2°) carenza di una “norma che consenta di speculare in pensione emolumenti corrisposti da Amministrazioni diverse da quella di appartenenza”.

      Prima ancora di muovere obiezioni sul merito della delibera, non sembra si possa pregiudizialmente sorvolare su considerazioni di rito che di seguito si rassegnano :

      Il thema decidendum portato all’esame della Sezione, quale risultava dalla istruttoria e dalla relazione di deferimento, era limitato e circoscritto all’ipotesi se il suddetto emolumento Se.C.I.T. corrisposto agli Esperti di provenienza magistratuale e alla cui categoria apparteneva il soggetto interessato, fruisse o meno dello stesso trattamento pensionistico già riconosciuto agli Esperti di provenienza dirigenziale. A questi ultimi, difatti, sulla base di un parere dell’INPDAP condiviso dalla Ragioneria Generale dello Stato e dalla stessa Sezione Centrale di controllo (delibera n.2/2004 estesa formalmente all’Esperto Macchia di provenienza dirigenziale) era già stato riconosciuto il diritto alla speculabilità in quota A di pensione di quell’emolumento.    

       Senonchè la Sezione, travalicando il thema decidendum deliberava, in contrasto con quanto sopra, la speculabilità in quota B di pensione dell’emolumento medesimo con riferimento a tutti gli Esperti Se.C.I.T. ivi compresi quelli di provenienza dirigenziale.

      Ciò stante, non può non risaltare pregiudizialmente la irritualità e la irregolarità del decisum adottato al di là ed in carenza di una corrispondente istruttoria e, tra l’altro, coinvolgente diritti acquisiti da soggetti estranei al procedimento i quali, proprio a causa di detta estraneità, non avevano potuto né potevano difendersi o controdedurre, sia pure per il tramite delle Amministrazioni di appartenenza. Il che avrebbe dovuto maggiormente indurre la Sezione a non travalicare il “thema decidendum”.

      La delibera de qua, pertanto, si appalesa pregiudizialmente inficiata da vizi del procedimento nonché lesiva delle garanzie normativamente stabilite, in rito, a tutela dei soggetti incisi dalla delibera stessa.

Passando ora al merito della delibera, anche a tale riguardo risalta la erroneità della soluzione data alla questione. È sufficiente, difatti, soffermarsi  brevemente sul secondo motivo addotto in delibera per il diniego della quota A, per rilevare che se fosse fondato l’assunto ivi sostenuto della non pensionabilità in quota A degli emolumenti corrisposti da Amministrazioni diverse da quella di appartenenza, ne deriverebbe la eclatante conseguenza che gli stipendi del personale fuori ruolo, verrebbero tutti falcidiati in sede pensionistica (collocati in quota B) in quanto corrisposti da Amministrazioni diverse da quella di appartenenza .

      Il che dimostra, attesa la infondatezza di tale assunto, l’avvenuto travisamento dei fatti essendosi confusa, in delibera, l’ipotesi del pubblico dipendente che svolge incarichi aggiuntivi alle funzioni istituzionali (partecipazione a Commissioni di collaudo, di esami di revisione ecc.) e  recanti emolumenti non pensionabili, con la diversa ipotesi quale quella dell’Esperto Se.C.I.T., in cui vengono svolte funzioni in via esclusiva e  in posizione di fuori ruolo, funzioni aventi, a tutti gli effetti, pari dignità di quelle di provenienza e senza la quale l’istituto del fuori ruolo non troverebbe mai attuazione.

Quanto sopra osservato, devesi altresì rilevare la infondatezza anche del secondo motivo su cui si basa la delibera nel denegare la quota A e che è costituito, come premesso, da una  presunta carenza di una norma che in tal senso disponga. Al riguardo valga la seguente esposizione : l’art.18, comma 1 del DPR n.287 del 1992 stabilisce che il servizio Se.C.I.T. “è computato come anzianità di servizio a tutti gli effetti, comprese le progressioni di carriera ed economiche”.

      È chiara ed inequivoca in detta norma speciale la equiparazione fatta dal legislatore tra il servizio di provenienza  e il servizio Se.C.I.T. le cui funzioni svolte - come già detto - in via esclusiva e in posizione di fuori ruolo,  vengono quindi, quanto agli effetti, parificate a quelle di provenienza delle quali assumono, quindi, la pari dignità.

      Il che tradotto agli effetti pensionistici significa che se le funzioni di provenienza sono speculabili in quota A di pensione (ciò che è pacifico nel nostro caso), parimenti le funzioni Se.C.I.T. non possono che essere speculabili in quota A, altrimenti si viola la descritta equiparazione.

Ciò, d’altronde, è in linea col nostro ordinamento pensionistico laddove  è ius receptum che l’emolumento che remunera le funzioni, è speculabile in quota A di pensione. In tal senso era ed è costante la legislazione, a cominciare dall’art.73 del DPR 748 del 1972, a proseguire con l’art. 43, comma 1, lett. a) del DPR 1092 del 1973 e a proseguire ancora sino ai nostri giorni, epoca in cui non vi è mutamento dello ius sebbene l’emolumento in parola a seguito  della  privatizzazione del rapporto di impiego sia confluito per i dirigenti nel trattamento economico accessorio previsto dall’art.24 del DPR n. 29 del 1993 e nella retribuzione di posizione contemplata dai CCNL di categoria. Quest’ultima retribuzione – è bene notarlo – è stata riconosciuta speculabile in quota A di pensione anche dalla stessa Sezione Centrale di controllo con la delibera n.2/2004 citata ed estesa poi, come già detto, all’indennità Se.C.I.T. 

Tutto quanto sopra premesso, va tuttavia precisato in ordine alla ripetuta  indennità Se.C.I.T., che l’art.12, comma 2 della legge 146 del 1980 norma rimasta in vigore sino al 24 aprile 2001, ne previde espressamente la non pensionabilità. Il che, da un lato, impedì all’art.18 citato di operare quella parificazione pensionistica già descritta in premessa e, dall’altro, consentì alla legge 335 del 1995 che introdusse un nuovo concetto di pensionabilità, di stabilirne la speculabilità in quota B di pensione. Ma ciò ebbe validità  sino alla suindicata data del 24 aprile 2001, dopo di che essendo venuto meno (con l’abrogazione del richiamato art.12, comma 2 da parte dell’art.22, comma 3, DPR 107/2001) l’impedimento alla operatività del ripetuto art.18 agli effetti pensionistici, da quel momento (25 aprile 2001) la speciale indennità Se.C.I.T.  acquisì il requisito della sua speculabilità in quota A di pensione, al di là del già descritto principio generale della materia recante la equazione “remunerazione di funzioni uguale a quota A di pensione”. 

In sintesi il regime giuridico della speciale indennità SECIT quale si è evoluto nel tempo, è il seguente: dal 28 aprile 1980 data di  entrata  in vigore della legge  146/ 1980 al 31 dicembre 1995 nessuna pensionabilità ( né quota A  ne  quota B) stante l’art.12 comma 2 di detta legge ; dal 1 gennaio 1996 al 24 aprile 2001 pensionabilità in quota B in forza della legge 335 del 1995 ; dal 25 aprile 2001 in poi pensionabilità in quota A di pensione in forza del combinato disposto dell’art. 18 comma 1 D.P.R 287/1992 e dell’art. 22 comma 2 D.P.R 107 del 2001. Ecco allora, contrariamente a quanto affermato in delibera, la norma (l’art.18 citato) che, quand’anche non si ritenga idoneo allo scopo il descritto principio generale della materia, costituisce a decorrere dal 25 aprile 2001 il supporto normativo specifico della speculabilità in quota A di pensione  dell’emolumento in esame, norma del tutto ignorata in delibera  nonostante che l’INPDAP nel suo parere (nota 6885 del 26 Febbraio 2002) condiviso dalla Ragioneria Generale dello Stato ( nota 70951 del 7 giugno 2004) la avesse ben evidenziata ed indicata come base normativa della quota A di pensione.

Sta di fatto che i suddetti pareri dell’INPDAP e della Ragioneria Generale dello Stato appaiono essere stati soltanto apoditticamente disattesi in delibera, quasi che quei pareri non meritassero neppure una qualsivoglia considerazione di merito in ordine all’art.18 ivi citato.

È da ritenere pertanto molto difficile che l’INPDAP, subentrata definitivamente alle Amministrazioni statali nella potestà liquidatoria delle pensioni dei dipendenti  statali ( esclusi i  militari) a decorrere dal 1°ottobre 2005, possa condividere la deliberazione de qua la quale, come annotato, appare erronea nel merito oltre che irrituale nel procedimento.

In tale contesto non sembra infine superfluo osservare, su un piano generale e strettamente giuridico, che il controllo della Corte dei  conti sui provvedimenti pensionistici, quale sinora esercitato, pur esprimendosi nella forma dell’ammissione o del rifiuto del visto, è pur sempre un controllo in via successiva (art.166 della legge 312/1980) il quale, cioè, in caso negativo non incide e nè inficia l’efficacia degli atti controllati. Talchè spetta, in tal caso, alla  competenza delle Amministrazioni interessate valutare, con il riesame di detti atti, l’eventuale adeguamento annullandoli o meno. Nasce, pertanto, dal rifiuto del visto  (recante sostanzialmente una declaratoria di non conformità a legge), non un obbligo di adempimento ma un onere di riesame o di rivisitazione con apprezzamento e responsabilità autonomi dell’Amministrazione il che è anche una garanzia procedimentale per l’avente diritto (Cons. St. Ad. Plen. 25 febbraio 1967 n. 1). Principio ormai pacifico in tema di controllo successivo (cfr. per tutte Del. Sez. contr. n. 1116 del 1980) nel cui contesto è quindi insito  come il rifiuto del visto non possa costituire la motivazione dell’eventuale annullamento dell’ “atto rifiutato”, anche perché la Corte dei conti istituzionalmente non ha compiti di amministrazione attiva ma di controllo (che è un giudizio) e, come tale, non può rendersi compartecipe, attraverso la motivazione, di atti volitivi dell’Amministrazione in una confusione di ruoli (argomento ex artt. 4 e 5 Legge n.2248/1865 All.E).

Ne consegue che appare giuridicamente non corretto il comportamento sinora tenuto dalle Amministrazioni le quali, nella descritta ipotesi di rifiuto del visto, hanno omesso ed omettono il riesame dell’atto controllato limitandosi ad “una presa d’atto” del rifiuto con conseguente supino adeguamento. Il che, oltre ad essere - come illustrato - anti-giuridico, è altresì lesivo del diritto alla tutela procedimentale che va riconosciuta ai pensionandi i quali, se privati di tale tutela, vedono ingiustamente relegata alla sola ed onerosa sede giurisdizionale la difesa dei loro diritti .

Del pari non corretto si appalesa,  per violazione del  citato art.166  Legge n. 312 del 1980, il comportamento delle Amministrazioni medesime nell’attendere, prima di dare esecuzione ai provvedimenti pensionistici (già di per sé efficaci), l’apposizione del visto della Corte trasferendo in tal guisa illegittimamente su di essa la responsabilità del ritardo. 

Non sarebbe male, pertanto, che la Corte medesima, onde impedire la descritta illegittima sospensione della esecutività di quei provvedimenti con pregiudizio tra l’altro dei pensionati, provveda a restituire alle Amministrazioni di provenienza quella ingente mole di migliaia di provvedimenti pensionistici giacenti presso di essa, affinché detti atti già di per sé efficaci per legge – come già detto - , siano comunicati agli interessati e resi, quindi, esecutivi.

Detta circostanza o adempimento, invero, costituisce, a rigore di legge, requisito di ricevibilità degli atti medesimi da parte della Corte, in mancanza del quale il controllo successivo su di essi si trasforma  in controllo preventivo, il che – come illustrato – non è previsto  (art. 166 più volte citato) in subiecta materia.



[1] La speciale indennità Se.C.I.T.  non ha nulla a che vedere con altre indennità, quali la “indennità di amministrazione” e l’ “indennità giudiziaria”, che sono diverse per natura e disciplina (corresponsione per dodici  e non tredici mensilità e senza scatti biennali RIA) e che vengono correttamente speculate in quota B di pensione. Ne consegue che la giurisprudenza formatasi in ordine alla suindicata “indennità di amministrazione”  e di cui si richiamano in particolare la deliberazione n.10/2002 Sez. Centrale contr., la sentenza n. 62 del 2005 Sez. giur. di App. Reg. Sic. e la sentenza n.642 del 3/09/2005 Sez. giur. Reg. Friuli Venezia Giulia,  non è valida per la indennità Se.C.I.T. che ne occupa.